Emilio Isgrò. Non cancellate la libertà

Emilio Isgrò

Questa intervista è apparsa sul numero di novembre 2017 di Tracce

«Un figlio di nome Emilio? Mai avuto». Firmato: Giuseppe Isgrò. «Mio fratello è partito molto tempo fa, ed era molto più giovane». Firmato: Maria Rosa Isgrò. «Oggi avrebbe trentadue anni, tre mesi e quindici giorni». Firmato: Aldo Isgrò. La serie di fogli termina con quello che riporta la sua firma: «Oggi, 6 febbraio 1971, dichiaro di non essere Emilio Isgrò». Un insieme di negazioni affermano, spiega oggi l’artista nato ottant’anni fa in Sicilia, a Barcellona Pozzo di Gotto: «Se i miei amici, genitori e parenti dicono di non conoscermi, affermano di più la mia identità».
Era il 1964 quando per la prima volta propose quelle passate alla storia come le “cancellature”. All’inizio erano libri, enciclopedie, articoli di giornale. Ogni parola veniva coperta di inchiostro nero. Restavano liberi solo alcuni vocaboli che andavano a formare nuove frasi, nuovi significati. Eppure a parlare era lo stesso testo di partenza. Nel 1971, appunto, arrivò a cancellare se stesso «per esserci di più», come Ulisse che, per sopravvivere, si fece chiamare Nessuno.
Oggi Emilio Isgrò è una delle figure più importanti dell’arte italiana. È stato testimone di stagioni gloriose: quelle dove i protagonisti si chiamavano Lucio Fontana o Piero Manzoni, piuttosto che Eugenio Montale o Giuseppe Ungaretti. È un signore colto, profondo, di una nobiltà sobria. Alcuni anni fa cancellò la Costituzione italiana perché, dice ironico, «tanti desiderano cancellarla: l’ho fatto io, così ero sicuro di farlo bene…».
Una delle sue ultime imprese è stata quella di affrontare uno dei suoi scrittori preferiti: Alessandro Manzoni. «Alla fine della quinta elementare», racconta, «chiesi a mia madre di regalarmi due libri. Uno era Pinocchio, l’altro I promessi sposi». Bambino precoce. Fatto sta che, nel 2016, da intellettuale laico e di sinistra (anche se poco allineato), si è messo a cancellare il capolavoro cattolico, facendone una serie di 35 tavole che ha esposto proprio a Casa Manzoni, con il titolo: I promessi sposi cancellati per venticinque lettori e dieci appestati.
È stata, tra le opere esposte nella mostra “Il passaggio di Enea” all’ultimo Meeting di Rimini, quella più discussa. In moltissimi l’hanno amata. Qualcuno (soprattutto i professori di Lettere) l’hanno odiata. C’è chi, su Instagram, ne ha parodiato il titolo che, cancellato, diventava I promessi lettori.
Di certo, chi è riuscito a entrare nella grammatica del linguaggio di Isgrò si è accorto della profondità e della delicatezza con cui si è accostato all’opera. Di questa impresa, del suo amore per Manzoni e di molto altro, abbiamo voluto parlare con lui, andandolo a trovare nel suo studio di via Martiri Oscuri, a Milano.

Maestro, a quale delle tavole de I promessi sposi cancellati è più legato?
Quella sull’Innominato, forse, dove restano soltanto le parole Dio e Io. Lì il rischio era di far emergere solo il discorso edificante, quello legato alla vicenda personale di Manzoni, perché, in fondo, il vero convertito è lui. Così, invece, il problema è risolto in una prospettiva che anche le moderne discipline conoscitive accettano volentieri. Il Dio che confina con l’Io… Il contatto tra immanenza e trascendenza.

In quella successiva, dedicata all’incontro tra l’Innominato e il Cardinale, lei lascia scritta una poesia bellissima: «raddolcito (…) e contento che il cardinale avesse rotto il (…) tempo».
La rottura del tempo per un cattolico credente è, probabilmente, l’eternità di Dio. Sul piano dell’immaginazione è invece la rottura delle costrizioni alle quali l’immaginazione è spesso costretta.

Forse è anche quella della misericordia, che redime ciò che il passato aveva reso irredimibile.
Certamente. Un testo poetico non è un atto notarile. Sono possibili tutte le letture compatibili a come si presenta l’opera. La rottura del tempo è la Provvidenza, che agisce anche quando tutto sembra perduto.

Con che spirito si è avvicinato a questo capolavoro?
L’ho fatto con il massimo rispetto. Anche se ho fatto un lavoro mio. L’Otello di Verdi è di Verdi o di Shakespeare? Di entrambi. A volte gli artisti si avvicinano a opere del passato con intenti bellicosi. Per me non è stato così. Ma avere rispetto non significa essere succubi, vuol dire cavarne la forza per se stessi, per un progetto nuovo.

Che cosa ha scoperto con questo lavoro?
Un Manzoni saldamente ancorato, pur nel suo aderire al mondo cattolico, ai princìpi che aveva appreso in casa del nonno Cesare Beccaria. Un Manzoni tanto cattolico quanto laico. Si figuri che votò, da Senatore del Regno, alla vigilia del non expedit, a favore di Roma capitale. La cosa che mi ha meravigliato, poi, non è tanto il fatto che lui fosse un peccatore, e lo sapesse, ma che non fosse un cattolico che aveva paura dell’inferno. A lui, piuttosto, interessava raggiungere il paradiso. Per questo, secondo me, è amato anche dai non cattolici. Non era un bigotto. La sua arte resta sempre libera. È troppo un grande poeta per essere anche un “grande cattolico”. Un grande poeta non potrà mai esserlo. Non potrà mai essere neppure un grande comunista, del resto.

Addirittura? Cosa significa per lei “grande cattolico”?
Il punto è che il linguaggio va dove vuole lui e l’artista non è che l’amministratore del suo stesso linguaggio. Si crea a un certo punto, nell’inconscio del poeta, uno stratificarsi di mondi che in certi momenti imbizzarriscono come cavalli e possono portare l’artista nella direzione opposta ai fini edificanti che, magari, voleva raggiungere. Manzoni, anche quando vuole essere edificante e scrivere un racconto per l’Italia popolare, alla fine – e io dico per fortuna – non è mai abbastanza edificante.

Sta dicendo che l’arte non ha il compito di educare?
L’arte educa non tanto a come comportarsi nella vita, ma a quel tanto di spregiudicatezza che, nel caso di un uomo credente come Manzoni, può portarlo a vedere il bene dove altri non lo vedrebbero. Nel cuore dell’Innominato, per esempio. E persino in don Rodrigo. Mentre noi lettori qualunque, il bene, lo vediamo soltanto in padre Cristoforo.

In un’altra occasione lei ha detto che l’arte educa perché innalza i desideri. Cosa significa nella sua vita?
Io non sono particolarmente virtuoso, sono una persona normale, a volte anche con desideri mediocri. È stata l’arte a non avermi mai tradito: mi ha sempre spinto a guardare in alto. L’arte, anche quando descrive il fango, indica che da lì si può rialzare la testa. Che poi, il desiderio, alla fine, è il desiderio di libertà. Libertà intesa, anche, come possibilità di educare se stessi.

Che cosa è per lei la bellezza?
L’arte deve comunicare una forma di visione più alta del vivere. È questa visione che io chiamo bellezza, non i canoni greci o rinascimentali. Per me confina con l’energia della vita. Quindi non mi sono posto mai il problema della bellezza in quanto tale. A posteriori, poi, si va a scoprire che certe cose hanno delle naturali simmetrie o asimmetrie, che coincidono con un “occhio elegante”. Ma non si sa bene perché accada.

Che cosa l’ha aiutata di più in questo tentativo di superare la soglia del vivere, elevare desideri?
Non ho mai accettato una visione dell’arte i cui valori fossero decretati dal mercato. Anche se il mercato è importante per la circolazione delle idee. Il problema è quando si eleva a ideologia. Diciamo che non ho preclusioni, non ho pregiudizi né nei confronti dei potenti, né nei confronti dei derelitti. Un artista non giudica mai. È per questo che possono esistere dei geni che moralmente sono dei delinquenti, ma che danno delle immagini strepitose della vita. L’artista è una macchina cieca. È per questo che spesso il mito dell’arte è legato tanto alla profezia quanto a quello della cecità di Tiresia o di Omero.

E un cieco come vede il mondo dell’arte di oggi?
Spesso si dice che oggi i giovani facciano arte solo per il successo e il denaro. Questo è vero solo in parte. In ogni caso non è chiaro in che direzione si stia andando. La stessa arte americana di oggi, a volte, è un fraintendimento delle istanze portate dalla pop art, che già allora non si capiva se celebrasse le merci o volesse distruggerle. Di certo un po’ di quel cinismo si è riversato in molti artisti i cui nomi oggi sono sulla bocca di tutti. A volte si ha l’impressione che l’irresponsabilità sia la cifra di questa epoca culturale. Anche se il senso di responsabilità degli artisti non consiste tanto nell’esercitare il proprio carisma senza limiti, ma nel proporzionarlo a una visione della vita attiva e feconda. La forza di un artista non si vede quando agisce al di fuori dei canoni, ma quando smentisce i canoni per renderli più forti e duraturi. Lei pensi alla cancellatura che ho fatto io. La cancellatura è il contrario di una distruzione della parola. Ci sono voluti molti anni perché lo si capisse e raggiungesse un pubblico ampio e differenziato come quello del Meeting di Rimini.

Che cosa ha di più caro Emilio Isgrò?
Essere autentico. Il rischio è dare l’impressione di essere mossi da logiche di marketing. Io dico: vendere l’arte è giusto, non è giusto farla per vendere. Perché l’arte è l’unica forma di trascendenza laica possibile in una società fatta da credenti e non credenti. È l’arte che unisce in un punto di libertà le istanze umane, e infatti l’arte è stata rispettata dai Papi come da Stalin. Non è che Stalin la rispettasse molto, è vero, ma in qualche caso sì… Però se si appiattisce troppo sul già visto e non si pone quelle domande che dovrebbe porre, finisce per impoverire il mondo. Senza domande non avremmo le risposte. E quindi se è troppo in soggezione nei confronti dell’esistente è un’arte monca. Oggi si può dire che c’è una carenza di domande nell’arte. A cosa serve fare le domande che i potenti vogliono sentirsi fare? Persino il re d’Inghilterra aveva il suo buffone. Oggi l’artista non accetta più di farlo. È un ruolo ingrato, ma può dare i suoi frutti. Oggi l’artista vuole essere come il principe. Poi l’Italia è un caso particolare: nella nostra storia gli artisti tante volte hanno avuto le buone maniere del principe e la libertà del buffone. Perché le buone maniere sono sempre utili. Però in Italia non è che manchino gli artisti veri, mancano piuttosto i fruitori dell’arte.

In che senso?
Gente abbastanza agguerrita e coraggiosa nel sostenere gli artisti. Questo secondo me accade perché quella italiana non è mai stata una società borghese matura.

Borghese?
D’accordo, leviamo “borghese” e teniamo solo “matura”. Una società per reggere la libertà dell’arte deve essere libera nell’intimo, quanto meno sicura di sé. Prenda Clemente VII che commissiona a Michelangelo le Cappelle medicee. Secondo lei si sarebbe preso un rischio del genere se non fosse stato sicuro del suo ruolo papale? Anche Pericle sapeva che Euripide era un rompiscatole e che lo poteva prendere di mira. Ma sapeva che la libertà degli artisti era importante perché lui potesse governare bene. Ecco, in Italia oggi non siamo in questa situazione. Men che meno negli Stati Uniti. Speriamo che tornino tempi migliori, che la gente si rimetta a studiare. L’impressione è che la gente non studi abbastanza.

Sean Scully – Il corpo della luce

Sean Scully

Questa intervista è comparsa sul numero di novembre 2016 di Tracce

Aveva dieci anni e abitava ancora a Dublino. Un giorno un sacerdote bussò alla porta di casa. Fu lui ad aprire. Il prete gli chiese se avesse qualcosa che apparteneva a Dio. Il ragazzo rispose che possedeva una bicicletta, ma quella era sua. La verità era che nelle due settimane precedenti, di ritorno da scuola, aveva iniziato a rubare dalla chiesa cattolica di Saint-Philip delle grosse candele. Si procurava dei giornali con i quali le avvolgeva e, una al giorno, le seppelliva nel giardino davanti a casa. Finì che il sacerdote aiutò il bambino a disseppellire le candele e i due divennero amici. Furono diversi i motivi che spinsero il giovane Sean Scully, oggi tra i pittori più famosi e apprezzati al mondo, a commettere quel furto. In un testo del 2010, intitolato Body of Light, l’artista ricorda che quelle candele erano «solide, lisce e pesanti: stranamente affascinanti nel loro silenzio traslucido. Si ergevano come figure magre, sentinelle, anche se ancora non conoscevo Giacometti. E quella luce, che si trovava in quel corpo, mi incantava».
Oggi, che di anni ne ha 71, le sue opere sono esposte nei grandi musei d’arte contemporanea. Tra i suoi collezionisti ci sono personaggi come Bono Vox degli U2. Gli anni dell’infanzia difficile, prima a Dublino, poi nei sobborghi di Londra, sembrano molto lontani. Come tanti irlandesi ha fatto fortuna a New York, diventando un punto di riferimento per almeno una generazione di artisti. Tra i suoi allievi c’è la star cinese dell’arte contemporanea Ai Weiwei, anche se tra i due non corre buon sangue. Oggi nel suo studio gironzolano un gatto e suo figlio di sei anni, avuto da un recente matrimonio.
Nell’estate del 2015 ha presentato la risistemazione della cappella di Santa Cecilia nel monastero di Montserrat, nella campagna vicino a Barcellona. Un piccolo gioiello ancora poco conosciuto.
La sua è una pittura elementare, quasi naïf: campiture di colori stese di fretta, che si alternano ritmicamente con un andamento quasi ipnotico. Quello che colpisce del suo ultimo periodo, oltre all’energia non scontata in un artista di quest’età, è la felicità che si sprigiona da queste tele semplici e intense. Forse anche per quella sua sensibilità, tutta particolare, proprio per la luce.

Da dove le viene questa energia?
Dall’impegno con la vita. L’essere legato all’energia della vita. Sono implicato con il mondo, con i suoi movimenti politici, con la sua umanità. Credo nell’arte e nella sua bontà. Non sono un pittore che si ritira per dipingere e basta: scrivo, viaggio, realizzo sculture, mostro il mio lavoro. Poi mi occupo di mio figlio e dei suoi amici. Sono estremamente motivato e questa motivazione, questa connessione, mi nutre. Se dai amore, l’amore ti ritorna indietro con gli interessi.

Che cosa cerca con la sua arte?
La mia arte è fondata sul realismo, non sull’astrazione. È un’arte fatta di superfici, relazioni tattili, molto facile da capire. I colori nei miei quadri hanno un legame con l’energia del mondo. La mia non è pittura colta, è abbastanza brutale. E penso sia per questo che la gente la ami. Picasso è stato, in fondo, tutta la vita un pittore cubista. Ecco, io invece sono un pittore geometrico, costruttivista. Le immagini mi nascono da oggetti costruiti: finestre, porte, muri, facciate. Ma la mia, in fondo, è una geometria umanistica.

In che senso?
Io vorrei rendere accessibile a tutti l’arte astratta. I miei quadri sono molto reali, è subito evidente che sono “fatti a mano”. In essi ogni cosa è frontale, come un muro o una porta, e non viene rappresentato lo spazio o la profondità. L’altra cosa è un forte senso tattile, di qualcosa che ha un corpo con il suo peso. Penso sia questo che distingue la mia pittura da tanta pittura astratta. Desidero portare l’astrazione nel mondo dell’esperienza.

Sean Scully, Venice, 2015
Sean Scully, Venezia, 2015.

L’anno scorso ha presentato il restauro della chiesa di Santa Cecilia in Spagna, a Monserrat. Ha parlato di quest’opera come di una delle più importanti e significative della sua carriera. Perché ne è convinto?
Una cappella è importante di per sé. Ma quel che io ho fatto è stato riportarla in vita. È un po’ come la storia della “Bella addormentata”: io ho dato il bacio alla principessa. Era un edificio antico di scarso interesse artistico. Ma quei quadri, quelle finestre, le vetrate hanno ridato vita a quello spazio. È stata un’operazione importante per me, perché si è trattato di lavorare con un ambiente intero. Ogni cosa è scelta per stare insieme con tutto il resto. Col passare del tempo, poi queste esperienze entrano nella dimensione del mito. Pensi alla Rothko Chapel di Houston e alla Cappella del Rosario di Matisse a Vence.

Come vive il confronto con quelle opere?
Nella mia testa quella che ho fatto io è la migliore (ride). E le spiego anche perché. Il mito della Cappella di Rothko è più grande del valore dei quadri che ospita: per quanto mi riguarda, sono opere abbastanza mute. Mentre in quella di Matisse non vedo veri e propri capolavori all’altezza del maestro. Mi appare un’operazione piuttosto decorativa, anche se trovo sia più riuscita rispetto a quella di Houston. Io ho cercato una grande varietà di approcci, tecniche differenti, un legame forte con il paesaggio circostante. Penso ci sia davvero molta vita. Più la si guarda, più si riesce a entrarci. Occorre un po’ di tempo.

Lei ha detto che il cattolicesimo non ha nutrito l’arte di questa cappella e che la sua opera è qualcosa di più universale. Cosa intendeva?
Mettiamola così: prenda cattolicesimo, luteranesimo, protestantesimo, giudaismo, islam, zen, indù… L’arte astratta è un modo per mettere tutte queste cose insieme e ottenere la giusta religione.

Sean Scully, Santa Cecilia, Monserrat.
Sean Scully, Santa Cecilia, Monserrat.

La “giusta religione” è un quadro astratto?
Penso che non si possa “descrivere” la religione. Nello zen si dice che per descrivere qualcosa occorre spiegare ciò che non è. È un approccio che non va preso in senso letterale, ma trovo sia molto interessante. Io desidero trovare l’universalità che c’è in ogni cosa. E penso che con un’immagine astratta si riesca ad avvicinarsi di più a questo obiettivo. Nel contesto dell’arte di oggi penso sia davvero molto difficile realizzare una chiesa con un linguaggio figurativo di altissimo livello. L’arte è passata da così tante rivoluzioni che ormai è quasi impossibile. Spiritualità e arte con soggetti esplicitamente religiosi vivono, ormai, su due dimensioni parallele. Trovo sia davvero complicato cercare di descrivere in senso narrativo, con linguaggio artistico, una religione particolare.

Perché?
Io sono innanzitutto un artista. La mia intenzione è quella di fare grande arte. E questo è di per se stesso vero, cioè contiene in sé della verità. La mia attività non è al servizio di un sistema di idee particolare: la mia pittura rappresenta se stessa al massimo livello che riesce a raggiungere. E le persone si commuovono a vederla. Quello che voglio dire è che se metti questo tipo di arte, che tocca davvero la sensibilità della gente, dentro una chiesa… Be’, qualcosa accadrà di sicuro. Poi io non sono in grado di controllare quello che deve accadere, né ho intenzione di farlo.

Come si è trovato a lavorare a Santa Cecilia?
Ho incontrato un monaco che è diventato mio amico: padre Joseph de C. Laplana. Abbiamo iniziato a parlare ed è nata questa proposta da parte sua. Avevo tempo per realizzarla, così ho accettato.

Così semplice?
Tutte le cose importanti nella vita dovrebbero essere molto semplici.

Nella sua opera ha un rapporto stretto con la luce.
La pittura è un modo del tutto particolare di illuminazione. È impossibile realizzare qualcosa di simile con i nuovi media. È la stessa differenza che c’è tra un disco in vinile e una registrazione digitale. Molta gente torna ad ascoltare la musica su vinile, perché il suono è molto più morbido e caldo. La materialità della vita ha dentro tutto. La pittura usa questa materialità per creare una luce che non perde il contatto con la realtà che percepiscono i sensi. La luce che c’è nelle cose del mondo in cui viviamo. La pittura non potrà mai essere sostituita da nessun’altra forma d’arte: è la luce che diventa corpo. È una cosa miracolosa e non passerà mai di moda.

Luca Fiore

Alberto Garutti – Perché è arte?

Questa intervista è stata pubblicata sul numero di ottobre 2015 di Tracce
Alberto Garutti è uno dei protagonisti della mostra del Meeting di Rimini Tenere vivo il fuoco. Sorprese dell’arte contemporanea. Nasce a Galbiate, provincia di Lecco, nel 1948. Fino al 2013 è stato docente di Pittura all’Accademia di Brera, e continua a insegnare a Venezia e al Politecnico di Milano. Chi ha visto la mostra di Rimini ha conosciuto una delle sue opere più famose, Temporali, istallata al Maxxi di Roma nel 2009. Mille potenti lampade, collegate al Centro Sperimentale Italiano, che si accendevano ogni volta che sul territorio italiano cadeva un fulmine. Per spiegare l’opera Garutti ha utilizzato 450 mila copie del giornale freepress City, sulla cui copertina compariva la scritta: «In una sala del nuovo Maxxi le luci vibreranno quando in Italia un fulmine cadrà durante un temporale. Quest’opera è dedicata a tutti coloro che passando di lì penseranno al cielo». In tanti ne hanno colto la poesia. Moltissimi hanno fatto domande. Siamo andati a rivolgergliele direttamente.

A Rimini chiedevano: «Perché questa opera di Garutti è arte?».
Io non so rispondere a questa domanda… Quell’opera parla del cielo, di quel grande enigma sospeso sulle nostre teste… Lo stesso enigma che ha a che fare con l’arte. Che cosa è veramente? Ogni volta che mi trovo davanti alla linea dell’orizzonte si presenta questa domanda. Mi torna spesso in mente Borges: l’universo è inconcepibile.

Perché?
Ciò che più conta nell’arte è la misteriosità dell’evento visivo. Ho insegnato a lungo e, come tutti i docenti, so che l’arte non si può insegnare. È possibile insegnare a suonare il pianoforte, ma non a diventare Mozart, esattamente come si può insegnare a scrivere, ma non ad essere Borges. L’arte è un grande enigma.

Se non possiamo dire cos’è, sappiamo almeno da dove nasce?
L’arte è il tentativo di andare oltre una soglia, nasce dal rapporto con un limite. Esplora nuove sensibilità e scenari diversi, è una straordinaria esperienza conoscitiva. Io penso che abbia in sé anche una tensione che è in relazione con degli eventi biologici, come la volontà di proseguire la propria specie. Non sono un filosofo, ma l’uomo dà molti nomi ad un’esigenza profonda che ha a che fare con il desiderio di generare. E questo, se ci si pensa, è un altro mistero.

Lei dice che la verità di un’opera, se c’è, è nell’andare verso. Quindi è una verità che non si può possedere?
Credo che pensare di possederla sia un errore. È come per chi sceglie di entrare in convento: decide di iniziare un percorso, un andare verso; questo mi sembra una grande cosa. L’aver fatto questa scelta non consente di sentirsi giunti a destinazione. Più passa il tempo più si mostra un enigma. Questa è la cosa formidabile dell’arte, d’altra parte io dico sempre che l’arte tende sempre alla perfezione perciò è sempre imperfetta. È indicibile, indecifrabile, inconcepibile: in ogni caso continua a mandarci dei segnali, a porci delle domande…

L’altra domanda che molti facevano a Rimini è: «Dove è finita la bellezza dell’arte antica? Nell’arte di oggi non c’è più».
Il termine bellezza è in sé sfuggente, occorre riappropriarsene continuamente. Un oggetto che cinquant’anni fa veniva considerato brutto oggi magari viene rivalutato e preso a modello. È una parola che comunemente viene usata con leggerezza, ma ha in sé sia una dimensione estetica che una interiore. Ad ogni modo è sempre legata alla sensibilità dell’uomo nella storia, alla sua vita. Per comprenderla meglio mi piace accostare alla parola bellezza l’aggettivo vitale.

D’accordo, ma l’arte antica?
L’arte del passato aveva uno scopo didattico e conoscitivo, aveva l’esigenza di comunicare una narrazione specifica. I grandi committenti del passato, i principi, i signori e soprattutto i Papi, desideravano comunicare al popolo degli episodi concreti molto precisi e non competeva all’artista reinterpretare arbitrariamente questi fatti. Ma per rappresentare questi temi si affidavano a un artista capace di garantire, oltre all’ortodossia del contenuto, anche una propria visione che interpretasse la sensibilità del tempo. Per questo vennero scelti alcuni importanti artisti che allora erano informatori capaci di raccontare attraverso le loro opere varie storie; ad esempio Giotto venne scelto per narrare la storia di san Francesco, affinché il popolo potesse comprendere meglio.

Adesso non funziona più così.
Ma anche allora il problema era più complesso: l’arte non si limita alla narrazione. Esiste il tema del linguaggio. Per esempio, una Madonna col Bambino di Giotto: dalla tensione della Madonna si percepisce il peso reale e consistente di quel bambino. Se pensiamo, invece, alla pittura bizantina notiamo subito uno scarto linguistico: figure piatte su fondo oro, metafisico. Con Giotto l’uomo comincia a essere un corpo, un corpo reale. Questi esempi mostrano come la storia dell’arte, e quindi la storia dell’uomo, sia percorsa da una ricerca sul linguaggio per portare significati diversi. Non è più solo narrazione.

È una visione del mondo…
Basti pensare alla differenza tra la Crocifissione di Masaccio in Santa Maria Novella e la Deposizione di Rosso Fiorentino di Volterra. Raccontano la stessa storia, ma il modo in cui sono dipinte mostra una diversa visione dell’uomo. Si passa dalle certezze del primo rinascimento ai dubbi del manierismo che si approfondiscono fino ad arrivare al buio enigmatico di Caravaggio.

L’arte di oggi, però, sembra aver perso il rapporto con la realtà.
L’arte, quando è vera, ha sempre un rapporto stretto con la realtà. E ha sempre un’implicazione narrativa, anche nelle opere concettuali. Diciamo che da quando hanno inventato la fotografia, l’arte comincia a occuparsi sempre più di quello che non è possibile vedere con gli occhi e questo, inevitabilmente, crea dei problemi perché aumenta la complessità dell’opera stessa.

E lei? Prova a opporsi a questa confusione?
Faccio quello che posso, ed è quello che cerco di fare con il mio lavoro e forse in particolare negli spazi pubblici. Il mio tentativo è di affrontare un’opera anche dal punto di vista etico, in rapporto cioè con gli altri, con le persone, la gente… E la gente siamo noi. Così nelle mie opere parlo, ad esempio, della nascita, che riguarda tutti. Parlo dei fulmini, perché il cielo è di tutti… Posso anche pensare che un’opera d’arte può considerarsi tale solo nel momento in cui viene resa pubblica.

Perché?
Perché appartiene agli altri, non è più mia. È come avere un figlio. Quando ho portato mio figlio per la prima volta all’asilo ho capito una cosa importante che era il lasciarlo andare con la maestra insieme agli altri bambini. E lì ho realizzato che l’atto d’amore veramente formidabile è quando lo consegni al mondo, gli consenti di uscire dalla dimensione famigliare, in qualche modo lo rendi “pubblico”. La stessa cosa avviene con le opere. Sono per la gente, ma bisogna fare attenzione e occorre portare il lavoro a un livello linguisticamente molto sofisticato per non scadere nel populismo demagogico.

Il cardinale Parolin, l’anno scorso al Salone del libro di Torino, ha girato al mondo della cultura la domanda di Gesù: «Dov’è il vostro tesoro? Perché è là il vostro cuore». Dov’è il tesoro di Alberto Garutti?
È una domanda difficile: da una parte sono rivolto agli affetti personali, dall’altra al mio lavoro, che non è soltanto un mestiere ma è ciò di cui mi nutro, un modo di esistere, di stare al mondo. Boetti in una sua opera dice: Mettere al mondo il mondo. Per me è esattamente questo: un tentativo di conoscenza e un desiderio profondo di generare, uno slancio assoluto. Ha a che fare con il protendersi oltre i propri limiti e permette di accedere a una dimensione universale. Tutto questo mi è necessario, forse rientra in qualche meccanismo profondo di conservazione della specie… Se per esempio mi dicessero che da domani non potrò più fare l’artista, per me sarebbe durissima.

Perché ha a che fare con la vitalità?
Ha a che fare con la vita.

Luca Fiore

Jean Clair – Pietà per l’arte

Questa intervista è stata pubblicata sul numero di settembre 2014 di Tracce

La fascetta gialla sulla copertina recita: «Il libro che ha scatenato il dibattito sull’arte contemporanea». Le fascette, si sa, sono specchietti per le allodole, ma L’inverno della cultura di Jean Clair, pubblicato in Italia nel 2011, è stato davvero un pamphlet che ha fatto scalpore. Storico dell’arte, a lungo curatore di importanti musei, accademico di Francia, Gerard Regnier (questo il suo vero nome) è amatissimo dalla stampa italiana per la sua verve polemica. La sua tesi di fondo è che l’Occidente è protagonista di una «discesa agli inferi», della quale il degrado delle arti figurative è l’esempio più eclatante. Nata in funzione del culto, separandosi dalla dimensione trascendente, l’arte si è prima ridotta a cultura, attività narcisistica, poi ad attività culturale, ostaggio delle logiche di mercato. Per Jean Clair è «il culto, non la cultura, ad aver originariamente reso abitabile il mondo». Nel suo discorso le star dell’arte contemporanea, Damien Hirst e Jeff Koons in particolare, vengono liquidate come figure mediocri, prive di talento e idee. Le loro opere accostate a subprime ed hedge funds. Bolle di sapone.

Alla fine dei suoi testi più famosi, Critica della modernità o L’inverno della cultura, si esce scoraggiati. Dipinge uno stato così desolante che sembra non ci sia più nulla da fare. Eppure lei continua a intervenire. Forse, in fondo, ha la speranza che qualcosa migliori?
È una domanda imbarazzante. Forse la mia posizione è solo estetica. Non è etica né religiosa. Non sono più un cattolico praticante, ad esempio. Vuol dire che, forse, mi avvicino alla presenza del Numen attraverso fenomeni estetici che nulla hanno a che fare con la religione. Se entro in una chiesa e vedo immagini stupende e ascolto Händel o Bach mi sento elevato. Quasi al punto di desiderare di tornare la settimana successiva. Ma se devo sorbirmi certe performance che si sentono oggi, preferisco starmene a casa. Forse sono un eretico, un uomo di estetica e non un uomo di fede. Eppure tutta la religione cattolica si è fondata su un tesoro di immagini e di suoni che sono la presentazione della bellezza. Lo diceva sant’Agostino: il bello è segno della divinità. Ma le chiese di oggi sono ancora la casa di Dio?

Perché questa difficoltà a rappresentare il sacro?
Le racconto questo aneddoto: il cardinale Jean-Marie Lustiger chiese al mio amico pittore Zoran Mu?sic? di dipingere una Maternità. Conosceva la sua opera, sapeva anche che era stato deportato a Dachau. Mu?sic? si sforzò di fare questo quadro che doveva raffigurare una madre col figlio. Non ci riuscì. Ai suoi occhi quel soggetto era diventato impossibile da rappresentare. Ma dopo la sua morte, nel suo studio, ho ritrovato schizzi, disegni, pastelli, di piccolo formato. Non erano Maternità: erano Deposizioni, Pietà…

Ma il soggetto sacro è stato affrontato da altri grandi artisti nel Novecento.
Picasso, ad esempio, lo ritengo un artista “cattolico”. Non solo per la famosa Crocifissione del 1930. Non solo per la ventina di disegni incredibili su questo tema sacro. Guernica è una specie di versione moderna del presepio. A sinistra c’è una madre col bambino e questo ha il braccio destro che cade nel vuoto, esattamente come in una Pietà. E Picasso era assolutamente cosciente di dipingere una Natività e una Pietà nello stesso istante.

Non c’è davvero niente che trova interessante nelle chiese contemporanee?
A un certo punto del Novecento la Chiesa cattolica è passata da un momento quasi protestante: nelle chiese non c’erano più immagini. Poi c’è stato un secondo periodo, che dura ancora oggi almeno in Francia, in cui hanno iniziato a usare icone bizantine. Ma non siamo protestanti né ortodossi. I cattolici non dovrebbero essere per le mura vuote né per le immagini “paralizzate”. Poi qualcuno ha usato opere di arte contemporanea orribili o mostruose, che sottendono un’interpretazione della fede che secondo me è un po’ al limite.

C’è una strada per uscire dall’empasse in cui ci troviamo?
I problemi che l’uomo sta affrontando sono più gravi di ieri. Il Papa parla di «cultura di morte». Penso all’aborto, alle leggi francesi sui matrimoni omosessuali, alla procreazione assistita, all’eutanasia. Se parlo da storico dell’arte, da esteta, dico che probabilmente questi sono dei nuovi temi che gli artisti dovrebbero provare a rappresentare. È molto difficile. Come fare? Nell’arte contemporanea non vedo nessun esempio della possibilità di rendere visibili questi problemi. Sono stato al Museo Lombroso di Torino, il museo di antropologia criminale. Lì, nella meravigliosa collezione di cere anatomiche dell’Ottocento, ho visto la serie dedicata ai vari stadi dell’embrione e l’ho trovata molto commovente. Ho pensato: se alle donne di allora fosse stato possibile vedere quelle opere, il rapporto che oggi abbiamo con l’aborto sarebbe stato diverso. Una volta viste quelle immagini tridimensionali non è più possibile scappare dalla realtà, pensando che l’aborto sia una cosa da nulla. Non è solo una questione linguistica, è un problema di forma, di rappresentazione.

Non si arrabbi, ma per la verità Damien Hirst, proprio l’anno scorso, ha fatto una serie monumentale sugli stadi dell’embrione che è stata esposta a Doha, in Qatar. E un’opera analoga l’ha fatta Marc Quinn qualche anno fa…
Sì? Non le ho viste, non le conosco. Sono un po’ scettico su questi artisti: il peso della derisione in loro è talmente forte che è difficile dire cosa intendano comunicare davvero.

La derisione è degli artisti o viene proiettata da critici e media?
Sì, forse mi sbaglio, potrebbe essere proiettata. Ma, in ogni caso, preferisco le opere scientifiche che ho visto al Museo Lombroso.

Benedetto XVI ha promosso la riconciliazione tra Chiesa e arte di oggi. Lei come imposterebbe una possibile soluzione? Inizierebbe dalle scuole d’arte? Dai seminari? Segnalerebbe alcuni artisti?
Non è una questione di strategia, ma inizierei col tornare all’insegnamento dell’iconografia cristiana. Sarebbe un buon inizio. Ma l’ignoranza del cristianesimo è tale che non so quanto si possa rimediare.

Se potesse regalare alla sua parrocchia di Parigi un’opera conservata in un museo occidentale, da mettere dietro all’altare, che opera sceglierebbe?
Come si fa in Russia, dove alcune icone sono state prese dai musei di epoca sovietica e rimesse nelle chiese?

Sì.
Forse una Pietà.

Quale?
(Ci pensa). La Pietà di Villeneuve-lès-Avignon, che è molto dura. In accordo con il nostro tempo… Senza speranza (sorride). Non, je joue. Scherzo. La Pietà è l’ultima e più bella invenzione iconografica frutto dello spirito cristiano. L’ultima ammirabile. È relativamente recente: gli artisti del Trecento la presero dalle sacre rappresentazioni.

Dopo tanti decenni di strapotere dell’avanguardia, di fatto, il mercato premia i pittori e gli scultori figurativi. Francis Bacon e Alberto Giacometti sono gli artisti per cui si è speso di più.
Sembra una rivincita. Ma era vero dieci anni fa, quindici anni fa. Ora sono le opere di Jeff Koons che sul mercato hanno dei prezzi folli. Milioni di euro per una scultura prodotta in cinque esemplari? Boh. Ma è vero che oggi è possibile parlare di Alberto Giacometti e Lucian Freud. Diciamo che c’è un bisogno di tornare all’immagine, di vedere di nuovo delle immagini e, se possibile, delle immagini senza cinismo e con una certa bellezza. Questo è nuovo di nuovo.

Non essere cinici è qualcosa che viene prima di mettersi a fare gli artisti. Come si fa a non essere cinici? Come si fa a insegnare a non essere cinico a chi potrà diventare un artista?
Tornando alle grandi questioni che riguardano la vita e la morte. Possono essere l’occasione per l’uomo occidentale di fare una riflessione fondamentale, radicale, e alla fine trascendentale. A partire da questi problemi penso ci saranno dei filosofi, degli scrittori, dei pittori che di nuovo ricominceranno a fare un’arte profondamente orientata sui problemi essenziali della vita e della morte. Come se fossimo nel Quattordicesimo secolo. Esagero?

Il cardinale Parolin ha concluso il suo intervento al Salone del libro di Torino girando al mondo della cultura la domanda di Gesù: «Dov’è il vostro tesoro? Perché è là il vostro cuore». Dov’è il tesoro di Jean Clair? Dov’è il suo cuore?
Nella mia infanzia.

Perché?
Sono nato in una famiglia di contadini. Mia madre era una donna molto credente. Mio padre era socialista. E oggi penso sempre di più a questa mia origine. Soprattutto quando, sessant’anni dopo, mi trovo sotto la grande cupola dell’Accademia di Francia.

Luca Fiore

Guido Guidi – Un atto devoto

Questa intervista è apparsa sul numero di aprile 2014 di Tracce

Guido Guidi vive in via Ronta a Ronta, in provincia di Cesena. E nonostante la via porti il nome del paesino di 1.500 anime, non è neanche la strada principale. Alla casa si arriva percorrendo un vialetto sterrato in mezzo a filari di alberi da frutto. L’auto si ferma davanti a un casolare che sembra abbandonato. Appeso al muro c’è un cartello stradale di direzione obbligatoria a destra. Tre metri più in là un altro indica a sinistra. Accanto alla porta a vetri un’altra freccia indica il campanello: «Suonare».
Schivo, timido, solitario, Guido Guidi è un personaggio atipico nel mondo della fotografia. Classe 1941, ha studiato architettura a Venezia, dove ha conosciuto l’architetto Carlo Scarpa e lo storico della fotografia Italo Zannier. Appartiene a quella generazione di fotografi che, per comodità, vengono chiamati “quelli di Viaggio in Italia”, la mostra organizzata nel 1984 da Luigi Ghirri. Insieme a lui, tra gli altri: Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Giovanni Chiaramonte, Mario Cresci e Mimmo Jodice. I fotografi del “nuovo paesaggio italiano”. Guidi non è solo un fotografo di paesaggio, ha lavorato molto anche con l’architettura. In particolare con quella del suo amato Scarpa. Ai suoi quarant’anni di carriera, in questi giorni, la Fondazione Henri Cartier-Bresson di Parigi dedica un’importante retrospettiva. Siamo andati a trovarlo e lui ci ha accolto nel suo studio, stracolmo di negativi e con le pareti coperte di appunti a matita. Sull’armadio alle sue spalle, appese con un magnete, la foto di un nipote e una fotocopia della Resurrezione di Piero della Francesca.

Nel catalogo della mostra di Parigi, Agnès Sires, la curatrice, scrive che lei vuole «portare alla luce una realtà in cambiamento che non desideriamo vedere, dove pensiamo che non ci sia niente da vedere». È così?
Io non ho le idee chiare, è per questo che fotografo. Fotografo per conoscere, per capire. Il Talmud dice che da qualsiasi parte tu guardi c’è qualcosa da vedere. Ma non lo dice solo il Talmud.

Che cosa scopre? Che cosa capisce?
Piccole cose, mai definitive. Sono comprensioni instabili: lungi da me pretendere la comprensione definitiva del mondo.

Perché cerca dove gli altri non desiderano vedere?
Non è per dispetto, lo faccio per curiosità. C’è un piacere particolare nel fotografare cose che altri non hanno ancora guardato. C’è un testo di John Szarkowski su Eugène Atget, in cui il critico americano dice che sarebbe stato bello essere a fianco del fotografo francese mentre camminava per Parigi guardando e indicando. In fondo fotografare è anche indicare. La vecchia storia dell’indice… Anche se quell’immagine è ormai inflazionata. È prestare attenzione alle cose. Tancredi, il pittore, diceva: «Un filo d’erba contro la bomba atomica». Pasolini preferiva salvare la lucciola piuttosto che la Montedison. Entrambi sono un po’ retorici, ma è in questa logica che a me interessa il filo d’erba. Non per imitare il filo d’erba, copiandolo come un’icona. Io lo copio attraverso la macchina fotografica per riprodurlo nella sua esattezza. Quello che io compio è un atto devoto nei confronti del filo d’erba, di un paracarro, una colonna dorica o corinzia.

Perché sente il bisogno di questa devozione?
Fotografare è un atto devoto. In senso laico, nel senso che vuoi tu, ma è un atto devoto… Lalla Romano pubblicò le foto che suo padre, da dilettante, aveva fatto a sua madre, perché, diceva, testimoniavano un atto d’amore. Che poi è un atto di devozione, per dirla con Didi-Huberman, lo storico dell’arte.

In un’occasione ha detto che quando fotografa qualcosa, lei è quella cosa, come se pregasse.
Sì, è così. Agnès Sires scrive che nelle mie fotografie non c’è ironia. Per forza, come faccio a fare dell’ironia se sto pregando? Ne parlano Matisse ma anche Man Ray: nel momento in cui fai, disegni o fotografi, sei quella cosa che cerchi di riprodurre. Non ci sono più io. Se io sono pittore sono nel pennello, se io sono fotografo sono nella macchina fotografica. Sono fuori di me. È un’iperbole, ma solo nel momento in cui sono fuori di me posso essere più vicino alle cose. Allora non posso avere ironia, perché sono dentro a ciò che riprendo. Se mi identifico, come faccio a giudicare? Sono quella cosa là. Punto e basta. Atto devoto, preghiera.

Da dove le viene questo linguaggio religioso?
Non sono cattolico praticante. Da ragazzino ero molto religioso, ma poi a scuola, gli incontri… Sono diventato un po’ agnostico, diciamo così. Però questo aspetto della religiosità, che era dentro di me, credo di averlo trasferito nell’atto del fotografare. Fotografare per me è essere nel mondo, toccare le cose, identificarmi con le cose. Non giudicarle, non criticarle e quindi è un atto di preghiera, è un atto devoto appunto. Non è tanto il risultato finale che mi interessa, ma il gesto in sé.

In che senso?
Le immagini che scatto potrei anche non svilupparle né stamparle, in linea di massima. Il momento che più mi interessa è l’azione, la performance, direbbero gli accademici. Io preferisco chiamarla preghiera. Anche la performance, in fondo, è una forma di preghiera.

Perché il gesto di devozione diventa una forma di conoscenza?
Gregorio di Nissa diceva che le idee creano idoli mentre lo stupore apre alla conoscenza. È lo stupore. È la reazione che hai davanti alle cose guardandole con quel surplus di intensità… Come il bambino che fissa e la mamma gli dice: «Perché guardi fisso? È da maleducati». Ma è quell’intensità che ti porta a conoscere. Quell’intensità dimentica di tutto, che è solo sguardo, privo di qualsiasi altra cosa.

È una conoscenza comunicabile?
Comunicare è per me secondario. Meglio: porsi il problema della comunicabilità porta fuori strada. La fotografia è un momento di conoscenza. Poi magari con il lavoro che fai pubblichi un libro e metti ordine, razionalizzi. Ma quando fai una fotografia non hai tempo per pensare. È come parlare: quando stai spiegando qualcosa, certo vuoi comunicare, ma nell’istante in cui lo fai cerchi di capire dove stai andando a parare. Fotografando parlo in primis con me stesso.

E poi per chi lo fa?
Per i miei amici. Quelli con cui negli anni ho sviluppato un rapporto di fiducia. Uno di loro è Italo Zannier, che è stato mio professore a Venezia. Ci sentiamo almeno una volta alla settimana. Mi piace questo scambio con poche persone. La comunicazione accade dando per scontato uno zoccolo duro di conoscenza comune, che permette di arrivare a dire all’altro: «Ho scoperto questo». Non è elitario, per me è una necessità. Se fai ricerca non puoi anche preoccuparti della comunicazione, non c’è tempo per tutto…

A proposito di ricerca, quelle alla Tomba Brion, il complesso funebre commissionato dai proprietari della Brionvega al suo maestro Carlo Scarpa, sono state delle vere e proprie scoperte.
Carlo Scarpa era mio professore a Venezia. Da studente non ho mai avuto il coraggio di parlargli. Gli ho parlato dopo una sola volta. Per il resto mi avvicinavo e ascoltavo da dietro le conversazioni… Poi andavo a disegnare e fotografare le sue opere: a Venezia, ma anche a Possagno, dove c’è l’intervento alla gipsoteca di Canova. Nel 1996 il CCA (Canadian Centre for Architecture) mi ha commissionato un libro su di lui. E preparandomi ho scoperto che la critica era ferma a dove l’avevo lasciata. Non era stato fatto un solo passo avanti. Questo secondo me perché i critici di architettura sono distratti e, a volte, non vanno nemmeno a vedere le opere dal vivo. E nel caso della Tomba Brion nessun critico, prima delle mie fotografie, aveva visto i giochi di luce e di ombra in quell’edificio.

Cosa ha visto?
Uno dei fenomeni è questo: attorno a mezzogiorno nella cappella succede che il quadrato della piramide tronca sopra l’abside, proietta un parallelepipedo di luce sulla parete sinistra e, man mano che il tempo passa, si sposta sulla parete destra. Il parallelepipedo di luce, nel momento in cui è a metà tra le pareti, crea una freccia luminosa sopra l’altare. Quando l’ho visto mi sono detto: «Ma che roba è? Ma siamo pazzi?». Ho guardato l’orologio ed era l’una. Poi mi sono accorto che c’era l’ora legale e, in realtà, era mezzogiorno. Possibile che nessun critico l’avesse mai vista?

Come se lo spiega?
A quell’ora si ha appetito e la gente, anche i critici, va al ristorante. E così ci si perde il fenomeno.

E lei non va al ristorante?
Io mi porto il panino. Se ti fermi per mangiare perdi un’ora di luce. Ma è comunque strano, perché poi ho chiesto alle signore del paese che vanno a innaffiare i fiori. In dialetto veneto mi hanno risposto: «Sì, c’è la luce divina che cade…». Ma ci pensi?

Cosa voleva dire Scarpa?
La tomba è dedicata al tempo… alla morte, al cosmo. Il complesso è costruito tutto su questo sistema di frecce create dalla luce e dall’ombra. Appaiono da una parte, scompaiono, e riappaiono da un altra. È un susseguirsi di rimandi. Bisognerebbe stare lì giorno e notte, vederla nelle diverse stagioni. Scarpa non può aver previsto tutto, ma è anche questa la sua grandezza.

Ha visto dove nessun altro aveva guardato.
È la macchina che vede, che mi permette di vedere. È attraverso la macchina che io posso vedere quello che i miei sensi, condizionati dalle convenzioni e dal “mal di denti”, altrimenti non vedrebbero.

D’accordo, ma lei era lì col panino…
Certo, non è un caso che io parli di preghiera. Io sono lì teso a captare il più possibile. Ma senza lo strumento io mi distraggo.

Faccia un esempio.
Ancora la Tomba Brion. Ero lì, nella cappella, a guardare il vetro smerigliato del banco ottico. Ero come in raccoglimento sotto il panno, in quella che io chiamo la posizione dell’orante, perché ricorda l’immagine dell’affresco nella catacomba di Priscilla a Roma. Fotografare con una Rollei è un’altra cosa perché ti costringe anche fisicamente a un’altra posizione. Usando una Leica, poi, sei costretto a chiudere un occhio per guardare nel mirino… Esagero: fotografare significa chiudere un occhio sulle malefatte della gente? Il grande formato, io uso negativi 20 per 25 centimetri mentre il formato della Leica è 35 per 24 millimetri, ti costringe a fotografare con tutto il corpo, non con un occhio solo. È un’operazione più riflessiva, più mentale. È un’esperienza diversa. La fotografia, in fondo, è ciò che rimane di quell’esperienza che tu hai fatto vivendo in quel posto e guardando quella cosa.

Cosa è successo dietro il vetro smerigliato?
Allora non usavo la lente di Fresnel che permette di vedere tutta l’immagine in un colpo solo. Così mi muovevo con la testa e guardavo pezzo per pezzo quello che stavo inquadrando. A un certo punto ho visto il parallelepipedo di luce. «Che cos’è?». Ho fatto uno scatto. Mi sono fermato a pensare. A un certo punto ho capito. Sono rimasto paralizzato dall’emozione. Ho smontato l’attrezzatura e me ne sono andato. Sul momento è stato così, poi sono tornato per dieci anni in diversi momenti dell’anno. Quel fenomeno si vede solo tra l’equinozio di primavera fino all’equinozio d’autunno. Nel periodo successivo, l’effetto si modifica.

Come?
Fuori dalla parete opposta all’altare ci sono due interstizi tra le lesene da cui passa la luce. E d’inverno quelle fessure proiettano sul pavimento due sottili fasci luminosi che, a mezzogiorno, toccano i lati della base dell’altare… è come se la luce sollevasse l’altare. Una cosa da far venire i brividi.

Nel 2003 ha pubblicato In Between cities. Un itinerario attraverso l’Europa. Che cosa significa per lei viaggiare?
Viaggiare è il modo migliore per conoscere l’altro, ma in fondo di conoscere te stesso. Viaggiare per me non è prendere l’aereo e andare a New York. Il viaggio è un’occasione per perdersi, scoprire sentieri. Per andare da qui a Venezia c’è la via maestra, l’autostrada, ma ci sono anche tantissimi sentieri laterali. E ci si perde. Per me il viaggio è questo: smarrirsi cercando di tornare a casa, cercando di trovare la mia casa. Una volta ho detto ad Arturo Carlo Quintavalle che avevo intenzione, ma poi non l’ho mai fatto, di andare a fotografare il paese dove sono nato con in mente l’immagine del Battesimo di Piero della Francesca, quello della National Gallery di Londra.

Lei è amico del fotografo americano Stephen Shore, che si è formato nella Factory di Andy Warhol. Lei invece ha studiato a Venezia andando alle Gallerie dell’Accademia a guardare proprio Piero della Francesca. Cosa sente in comune con Shore?
Anni fa ero in disaccordo totale con il mio amico Luigi Ghirri, che a Shore preferiva Meyerowitz. C’è questo aspetto sentimentale che credo faccia parte della cultura con la quale mi sono trovato in disaccordo… è la cosiddetta “Scuola modenese” con Chiaramonte, Ghirri. Anche Meyerowitz utilizza il formato 20×25 centimetri, una fotografia esatta, ma è hopperiana, di maniera, sentimentale. Fotografava le luci del tramonto, un cavallo di battaglia di Ghirri. Ma un’immagine al tramonto è diversa da una scattata con la luce a mezzogiorno: sono approcci emotivi completamente differenti. Preferisco Shore, più freddo. Più sensibile ma meno votato alla comunicazione. Alla maniera di Piero della Francesca, più trattenuto. Piero e Shore sono l’emozione trattenuta. In loro, se c’è, l’emozione è nascosta, in Meyerowitz è resa televisiva. Oggi niente si fa se non c’è questo aspetto emotivo. La propaganda politica in primis. L’emozione è lo strumento sui cui fa leva tutta la nostra cultura pseudo democratica.

Ma come stanno insieme Piero della Francesca con Andy Warhol?
Shore ha scattato le immagini della Factory quando aveva 14 anni. Se glielo chiedi ti dice che sono stati anni tremendi, di grande intensità. Una sera ero con lui e William Guerreri a Reggio Emilia, seduti fuori da un bar di campagna, e gli gliel’abbiamo chiesto: «Stephen, cosa hai imparato negli anni della Factory?». Ha risposto: «Ho imparato una cosa molto semplice, piccola ma importante: io adesso sono qui, là ci sono delle mucche nel campo, e questo è. Domani mattina sarò a New York, avrò magari la limousine e quello è. Adesso sono qui, e quando sono là sono là». È la stessa cosa di quando prima dicevo: «Io voglio essere la cosa che fotografo». Ma ciò che mi unisce a Shore non è Warhol. I maestri di Shore sono Edward Weston, Minor White e Walker Evans. Soprattutto Evans, la cui raffinatezza è comparabile con quella di Piero della Francesca: quell’esattezza, quella compostezza, quel nascondere la propria mano…

Prima della Tomba Brion, hai fotografato la luce nella stanza vuota di Preganziol, da cui poi è nato un libro.
Quello, forse, è un lavoro sul tempo. Ho iniziato a lavorare per sequenze già negli anni Sessanta. Forse è l’influenza della ripetitività della pop art.

Aveva in mente le cattedrali di Rouen di Monet?
Anche, ma soprattutto le predelle di Paolo Uccello a Urbino. La questione vera è il rapporto tra spazio e tempo. Per gli architetti del Rinascimento le due cose vanno a braccetto. Brunelleschi era un costruttore di orologi meccanici, ad esempio. Lì volevo essere più uno scienziato dello spazio che un poeta dello spazio: volevo misurarlo visivamente, ma dar conto anche del tempo che passa. In senso fisico, non metafisico. Cercavo una stanza cubica in cui provare una nuova macchina che mi era costata un occhio della testa. Avevo bisogno di uno spazio adatto a quello strumento. L’ho trovato in un parco ai margini di una villa palladiana vicino a Treviso. Capitai lì per caso. Ho montato il cavalletto e ho incominciato a scattare seguendo il procedere, da una parete all’altra, della luce che entrava dalla finestra.

Cosa cercava?
Cercavo di fare una buona fotografia, non una bella fotografia… Altrimenti è come se pregando cercassi di fare una bella preghiera… Se vuoi che la preghiera sia efficace devi essere intenso. Se no preghi per farti vedere e allora sei un chierico, un fariseo. Cercavo di descrivere esattamente. Non ho intenzioni, perché tu sai bene che – soprattutto nella cultura zen – l’intenzione è da abolire. Hai mai letto Jiddu Krishnamurti?

No.
Il problema del vivere, del raggiungimento della felicità, che poi non esiste, è quella di abolire l’intenzione.

L’inesistenza della felicità è un presupposto?
Ma no, è chiaro che tutti desideriamo essere felici, vivere meglio. Ma come si fa a vivere? Io non lo so.

Luca Fiore

Meyerowitz – Vivo per stupirmi ancora

Questa intervista è apparsa sul numero di gennaio 2014 di Tracce

«Cosa te ne sembra? Dammi un feedback, sei il primo a cui lo chiedo». Joel Meyerowitz è seduto nella Galleria San Fedele di Milano che ospita la mostra “Sightseeing – Un sentimento della vita” curata da Giovanni Chiaramonte in collaborazione con Ultreya e Leica. Di fronte a lui ci sono le ultime immagini, realizzate l’anno scorso nell’atelier di Cézanne. È la prima volta che vengono esposte e la risposta è d’istinto. «Mi colpisce il grigio». «Davvero?». Le mille rughe del volto gli si strizzano in un’espressione stupita.

Meyerowitz è così, non importa se il suo nome è scritto sui libri di storia della fotografia, ha bisogno di sapere cosa ne pensi tu. Dopo cinquant’anni di carriera si trova come da capo, ma negli occhi ha lo stupore dell’inizio. Negli anni Sessanta è stato uno dei padri della street photography. Negli anni Settanta ha scoperto la fotografia di paesaggio: l’orizzonte sulle coste di Cape Cod e i colori tenui delle notti bianche di San Pietroburgo. Nel 2001 è l’unico fotografo a ottenere l’accesso illimitato al cantiere di Ground Zero. Il 2013 è l’anno di Cézanne.

Partiamo dalla fine. Perché queste ultime foto?
Ero in Provenza per realizzare un libro, due anni fa. Con mia moglie andai a visitare l’atelier a Aix-en-Provence, per rendere omaggio al grande pittore. La cosa che mi ha colpito di più è stato vedere che avesse dipinto le pareti di grigio scuro. Mi sono chiesto: perché grigio scuro? Perché il padre della pittura contemporanea fa una scelta del genere?

Che risposta si è dato?
Prima di lui c’era la pittura del Salon: illusione degli spazi profondi, prospettiva rinascimentale… Ogni cosa doveva avere un “aspetto reale”. Cézanne rompe con questo. E comincia a fare macchie di colore. Una macchia indica la caraffa verde e un’altra indica il muro grigio. Il muro non lo “spinge” indietro. Con questo lento accostamento di macchie di colore inventa la “piattezza”. L’arte moderna è “piatta”. Da lì in poi non interessa più dare l’illusione della profondità.

E il muro grigio?
È la raison d’être di questa piattezza. Perché se avesse dipinto il muro di bianco, gli oggetti che dipingeva avrebbero avuto un riflesso attorno ai bordi. Il bianco rimbalza, arrotonda un po’ gli oggetti. Il grigio no. E ho pensato che questa fosse una strategia.

È la prima volta che fotografa degli oggetti in quanto tali.
Sono nature morte molto semplici. Non c’è “arte” in queste immagini. C’è la ricca tonalità del grigio e le sottili caratteristiche di ciascun oggetto. Non sono oggetti d’arte: ceramiche rotte e polverose, una caffettiera di latta, un cappello, il teschio. Sono gli oggetti che Cézanne usava per le sue nature morte. Li ho fotografati nel suo studio, con la stessa luce con cui li vedeva lui. Erano cento anni che nessuno li toccava. Ho accostato le 25 immagini e ne ho fatto un’opera sola. Ora sono a questo punto. È molto diverso dal lavoro che ho fatto finora, è un rischio che mi sono preso. Non so se sia una buona opera d’arte.

Qual è la relazione con la sua opera passata?
Mentre ero a Ground Zero mi imbattevo tutti i giorni negli oggetti volati fuori dagli edifici. Oggetti privati appartenuti alla gente, cose che tenevano nella loro postazione di lavoro. Molti li ho conservati e li ho dati al museo. Ora hanno una collezione di artefatti un po’ come a Pompei. Un taccuino, un mazzo di chiavi, animali di peluche… Li ho fotografati tutti, per farne una copia, non ne volevo fare qualcosa in particolare.

C’è un oggetto che l’ha colpita di più?
Un giorno un vigile del fuoco mi ha portato una Bibbia. Era sepolta a sette piani sottoterra. Il calore l’aveva resa tutt’uno con un pezzo d’acciaio. Bruciata, imbevuta d’acqua… Era aperta su Esodo 21: «Ma se segue una disgrazia, allora pagherai vita per vita: occhio per occhio, dente per dente». Incredibile. Ho vissuto con quella Bibbia in casa diversi anni, poi l’ho regalata al museo. Tutte queste cose, Ground Zero, un libro sulla Toscana, il muro grigio, penso mi abbiano portato, passo passo, agli oggetti dell’atelier di Cézanne.

Wim Wenders racconta che una mattina venne con lei a fotografare a Ground Zero e riferisce di averla sentita dire che non aveva mai visto un mattino bello come quello. A Ground Zero?
Quello è il cimitero di tremila persone. Ci ho passato nove mesi. Ma spesso lì ho fatto l’esperienza dello stupore e della bellezza. Mi trovavo a dire: «È bellissimo». Poi il pensiero: «Ma sono pazzo?». Ground Zero era diventato bello, perché quel che c’era era diventato natura. Il sole che sorgeva al mattino, la nebbia che saliva, gli arcobaleni, la neve, i temporali, la luce dorata che entrava nel pomeriggio. Io guardavo e fotografavo tutto, perché era bello. Dopo il crollo delle torri ha preso piede la natura. Era il sublime.

In che senso?
Il sublime della cascata, degli abissi, della tempesta, della furia del mare. È il sublime che ci insegna lo stupore. A Ground Zero, quando la forza di gravità ha avuto la meglio sulle torri, è accaduto un nuovo tipo di sublime che nasce da una bellezza terribile. È ciò a cui io rispondevo e sono sicuro che è la stessa cosa che ha percepito Wenders quando è stato con me. La bellezza terribile, un sublime contemporaneo. È qualcosa su cui dovremmo riflettere.

Molti maestri della fotografia del XX secolo sono ebrei. È una coincidenza o è qualcosa di più? Cosa ha trovato delle sue radici ebraiche che l’hanno aiutata a sviluppare il suo modo di fotografare?
È una domanda delicata, ma contiene molta verità. Molti dei più grandi fotografi del Novecento sono di tradizione ebraica. È strano, perché gli ebrei non hanno una cultura visiva, in termini biblici. L’immagine scolpita non è ebraica. Non è neanche musulmana. Sono i cristiani a usare le immagini, i musulmani usano la calligrafia, gli ebrei… Per loro la parola è la parola. Ma per qualche ragione nel secolo scorso, soprattutto in America, tra gli ebrei si è creato un forte interesse per la fotografia. Secondo me perché gli ebrei sono gente con una forte coscienza sociale. Come popolo oppresso, cacciato dalla propria terra, gli ebrei sono diventati molto sensibili ai cambiamenti delle dinamiche sociali e sono watchful, hanno sviluppato uno sguardo vigile. Questo sguardo attento e l’interesse per i cambiamenti sociali hanno prodotto Freud, Stalin e Einstein. Oltre a moltissimi musicisti e artisti. Ma a portarli alla fotografia è una sorta di consapevolezza sociale, un tipo di rispetto, un senso emotivo di perdita. La fotografia è un’indagine sulla perdita. Sull’istante che se ne va. Gli ebrei percepiscono questa perdita e sono stati in grado di sintetizzarla. Penso a Diane Arbus, Garry Winogrand, Irvin Penn, Robert Capa, Robert Frank, Alfred Stieglitz…

Il pittore David Hockney dice che ha imparato a guardare la realtà disegnando. Che cosa ha imparato facendo fotografie?
A raffinare la mia intuizione rispetto a quello che mi accadrà. Non ho poteri extra sensoriali, ma ho sviluppato la capacità di predire in modo abbastanza preciso quando qualcosa sta per accadere. Io leggo la strada come se fosse un testo. Ti so dire che quella persona che sta camminando incontrerà quell’altra tra 20 secondi. Io sarò nel posto giusto esattamente in quel momento. E non sarà l’unica cosa che accadrà, perché altri due, tre, quattro arriveranno. Io so intuire quando in un posto le persone si incontreranno e renderanno visibile qualcosa che prima non lo era.

Dopo cinquant’anni a fare fotografie che cosa è rimasto come all’inizio?
Ho cominciato che non sapevo nulla di fotografia. Tutto ciò che avevo era il senso di meraviglia. Le cose mi sbalordivano, mi sembravano wonderful, full of wonder, piene di meraviglia. Quella persona, il gesto di qualcuno che si gratta i capelli… Potevano essere belli e poetici in quel momento e il momento successivo non esserci più. Io voglio essere pronto con la macchina fotografica per scattare. Ancora oggi faccio tesoro dei giorni. Mi capita quotidianamente di guardare e dire: «Ma che bello!». Le cose mi fanno fermare. Il mondo è pieno di momenti fantastici. Io vivo per farne esperienza ancora. Voglio tornare a dire “wow”. Perché è qualcosa che ti ferisce. Le cose che fotografo sono meravigliose. Sono piene di ruvidezza umana, energia umana. Ciò che davvero conta è avere un’altra esperienza che ti senti penetrare dentro. E rischiare ogni cosa tutti i santi giorni.

Luca Fiore