Sean Scully – Il corpo della luce

Sean Scully

Questa intervista è comparsa sul numero di novembre 2016 di Tracce

Aveva dieci anni e abitava ancora a Dublino. Un giorno un sacerdote bussò alla porta di casa. Fu lui ad aprire. Il prete gli chiese se avesse qualcosa che apparteneva a Dio. Il ragazzo rispose che possedeva una bicicletta, ma quella era sua. La verità era che nelle due settimane precedenti, di ritorno da scuola, aveva iniziato a rubare dalla chiesa cattolica di Saint-Philip delle grosse candele. Si procurava dei giornali con i quali le avvolgeva e, una al giorno, le seppelliva nel giardino davanti a casa. Finì che il sacerdote aiutò il bambino a disseppellire le candele e i due divennero amici. Furono diversi i motivi che spinsero il giovane Sean Scully, oggi tra i pittori più famosi e apprezzati al mondo, a commettere quel furto. In un testo del 2010, intitolato Body of Light, l’artista ricorda che quelle candele erano «solide, lisce e pesanti: stranamente affascinanti nel loro silenzio traslucido. Si ergevano come figure magre, sentinelle, anche se ancora non conoscevo Giacometti. E quella luce, che si trovava in quel corpo, mi incantava».
Oggi, che di anni ne ha 71, le sue opere sono esposte nei grandi musei d’arte contemporanea. Tra i suoi collezionisti ci sono personaggi come Bono Vox degli U2. Gli anni dell’infanzia difficile, prima a Dublino, poi nei sobborghi di Londra, sembrano molto lontani. Come tanti irlandesi ha fatto fortuna a New York, diventando un punto di riferimento per almeno una generazione di artisti. Tra i suoi allievi c’è la star cinese dell’arte contemporanea Ai Weiwei, anche se tra i due non corre buon sangue. Oggi nel suo studio gironzolano un gatto e suo figlio di sei anni, avuto da un recente matrimonio.
Nell’estate del 2015 ha presentato la risistemazione della cappella di Santa Cecilia nel monastero di Montserrat, nella campagna vicino a Barcellona. Un piccolo gioiello ancora poco conosciuto.
La sua è una pittura elementare, quasi naïf: campiture di colori stese di fretta, che si alternano ritmicamente con un andamento quasi ipnotico. Quello che colpisce del suo ultimo periodo, oltre all’energia non scontata in un artista di quest’età, è la felicità che si sprigiona da queste tele semplici e intense. Forse anche per quella sua sensibilità, tutta particolare, proprio per la luce.

Da dove le viene questa energia?
Dall’impegno con la vita. L’essere legato all’energia della vita. Sono implicato con il mondo, con i suoi movimenti politici, con la sua umanità. Credo nell’arte e nella sua bontà. Non sono un pittore che si ritira per dipingere e basta: scrivo, viaggio, realizzo sculture, mostro il mio lavoro. Poi mi occupo di mio figlio e dei suoi amici. Sono estremamente motivato e questa motivazione, questa connessione, mi nutre. Se dai amore, l’amore ti ritorna indietro con gli interessi.

Che cosa cerca con la sua arte?
La mia arte è fondata sul realismo, non sull’astrazione. È un’arte fatta di superfici, relazioni tattili, molto facile da capire. I colori nei miei quadri hanno un legame con l’energia del mondo. La mia non è pittura colta, è abbastanza brutale. E penso sia per questo che la gente la ami. Picasso è stato, in fondo, tutta la vita un pittore cubista. Ecco, io invece sono un pittore geometrico, costruttivista. Le immagini mi nascono da oggetti costruiti: finestre, porte, muri, facciate. Ma la mia, in fondo, è una geometria umanistica.

In che senso?
Io vorrei rendere accessibile a tutti l’arte astratta. I miei quadri sono molto reali, è subito evidente che sono “fatti a mano”. In essi ogni cosa è frontale, come un muro o una porta, e non viene rappresentato lo spazio o la profondità. L’altra cosa è un forte senso tattile, di qualcosa che ha un corpo con il suo peso. Penso sia questo che distingue la mia pittura da tanta pittura astratta. Desidero portare l’astrazione nel mondo dell’esperienza.

Sean Scully, Venice, 2015
Sean Scully, Venezia, 2015.

L’anno scorso ha presentato il restauro della chiesa di Santa Cecilia in Spagna, a Monserrat. Ha parlato di quest’opera come di una delle più importanti e significative della sua carriera. Perché ne è convinto?
Una cappella è importante di per sé. Ma quel che io ho fatto è stato riportarla in vita. È un po’ come la storia della “Bella addormentata”: io ho dato il bacio alla principessa. Era un edificio antico di scarso interesse artistico. Ma quei quadri, quelle finestre, le vetrate hanno ridato vita a quello spazio. È stata un’operazione importante per me, perché si è trattato di lavorare con un ambiente intero. Ogni cosa è scelta per stare insieme con tutto il resto. Col passare del tempo, poi queste esperienze entrano nella dimensione del mito. Pensi alla Rothko Chapel di Houston e alla Cappella del Rosario di Matisse a Vence.

Come vive il confronto con quelle opere?
Nella mia testa quella che ho fatto io è la migliore (ride). E le spiego anche perché. Il mito della Cappella di Rothko è più grande del valore dei quadri che ospita: per quanto mi riguarda, sono opere abbastanza mute. Mentre in quella di Matisse non vedo veri e propri capolavori all’altezza del maestro. Mi appare un’operazione piuttosto decorativa, anche se trovo sia più riuscita rispetto a quella di Houston. Io ho cercato una grande varietà di approcci, tecniche differenti, un legame forte con il paesaggio circostante. Penso ci sia davvero molta vita. Più la si guarda, più si riesce a entrarci. Occorre un po’ di tempo.

Lei ha detto che il cattolicesimo non ha nutrito l’arte di questa cappella e che la sua opera è qualcosa di più universale. Cosa intendeva?
Mettiamola così: prenda cattolicesimo, luteranesimo, protestantesimo, giudaismo, islam, zen, indù… L’arte astratta è un modo per mettere tutte queste cose insieme e ottenere la giusta religione.

Sean Scully, Santa Cecilia, Monserrat.
Sean Scully, Santa Cecilia, Monserrat.

La “giusta religione” è un quadro astratto?
Penso che non si possa “descrivere” la religione. Nello zen si dice che per descrivere qualcosa occorre spiegare ciò che non è. È un approccio che non va preso in senso letterale, ma trovo sia molto interessante. Io desidero trovare l’universalità che c’è in ogni cosa. E penso che con un’immagine astratta si riesca ad avvicinarsi di più a questo obiettivo. Nel contesto dell’arte di oggi penso sia davvero molto difficile realizzare una chiesa con un linguaggio figurativo di altissimo livello. L’arte è passata da così tante rivoluzioni che ormai è quasi impossibile. Spiritualità e arte con soggetti esplicitamente religiosi vivono, ormai, su due dimensioni parallele. Trovo sia davvero complicato cercare di descrivere in senso narrativo, con linguaggio artistico, una religione particolare.

Perché?
Io sono innanzitutto un artista. La mia intenzione è quella di fare grande arte. E questo è di per se stesso vero, cioè contiene in sé della verità. La mia attività non è al servizio di un sistema di idee particolare: la mia pittura rappresenta se stessa al massimo livello che riesce a raggiungere. E le persone si commuovono a vederla. Quello che voglio dire è che se metti questo tipo di arte, che tocca davvero la sensibilità della gente, dentro una chiesa… Be’, qualcosa accadrà di sicuro. Poi io non sono in grado di controllare quello che deve accadere, né ho intenzione di farlo.

Come si è trovato a lavorare a Santa Cecilia?
Ho incontrato un monaco che è diventato mio amico: padre Joseph de C. Laplana. Abbiamo iniziato a parlare ed è nata questa proposta da parte sua. Avevo tempo per realizzarla, così ho accettato.

Così semplice?
Tutte le cose importanti nella vita dovrebbero essere molto semplici.

Nella sua opera ha un rapporto stretto con la luce.
La pittura è un modo del tutto particolare di illuminazione. È impossibile realizzare qualcosa di simile con i nuovi media. È la stessa differenza che c’è tra un disco in vinile e una registrazione digitale. Molta gente torna ad ascoltare la musica su vinile, perché il suono è molto più morbido e caldo. La materialità della vita ha dentro tutto. La pittura usa questa materialità per creare una luce che non perde il contatto con la realtà che percepiscono i sensi. La luce che c’è nelle cose del mondo in cui viviamo. La pittura non potrà mai essere sostituita da nessun’altra forma d’arte: è la luce che diventa corpo. È una cosa miracolosa e non passerà mai di moda.

Luca Fiore