Meyerowitz – Vivo per stupirmi ancora

Questa intervista è apparsa sul numero di gennaio 2014 di Tracce

«Cosa te ne sembra? Dammi un feedback, sei il primo a cui lo chiedo». Joel Meyerowitz è seduto nella Galleria San Fedele di Milano che ospita la mostra “Sightseeing – Un sentimento della vita” curata da Giovanni Chiaramonte in collaborazione con Ultreya e Leica. Di fronte a lui ci sono le ultime immagini, realizzate l’anno scorso nell’atelier di Cézanne. È la prima volta che vengono esposte e la risposta è d’istinto. «Mi colpisce il grigio». «Davvero?». Le mille rughe del volto gli si strizzano in un’espressione stupita.

Meyerowitz è così, non importa se il suo nome è scritto sui libri di storia della fotografia, ha bisogno di sapere cosa ne pensi tu. Dopo cinquant’anni di carriera si trova come da capo, ma negli occhi ha lo stupore dell’inizio. Negli anni Sessanta è stato uno dei padri della street photography. Negli anni Settanta ha scoperto la fotografia di paesaggio: l’orizzonte sulle coste di Cape Cod e i colori tenui delle notti bianche di San Pietroburgo. Nel 2001 è l’unico fotografo a ottenere l’accesso illimitato al cantiere di Ground Zero. Il 2013 è l’anno di Cézanne.

Partiamo dalla fine. Perché queste ultime foto?
Ero in Provenza per realizzare un libro, due anni fa. Con mia moglie andai a visitare l’atelier a Aix-en-Provence, per rendere omaggio al grande pittore. La cosa che mi ha colpito di più è stato vedere che avesse dipinto le pareti di grigio scuro. Mi sono chiesto: perché grigio scuro? Perché il padre della pittura contemporanea fa una scelta del genere?

Che risposta si è dato?
Prima di lui c’era la pittura del Salon: illusione degli spazi profondi, prospettiva rinascimentale… Ogni cosa doveva avere un “aspetto reale”. Cézanne rompe con questo. E comincia a fare macchie di colore. Una macchia indica la caraffa verde e un’altra indica il muro grigio. Il muro non lo “spinge” indietro. Con questo lento accostamento di macchie di colore inventa la “piattezza”. L’arte moderna è “piatta”. Da lì in poi non interessa più dare l’illusione della profondità.

E il muro grigio?
È la raison d’être di questa piattezza. Perché se avesse dipinto il muro di bianco, gli oggetti che dipingeva avrebbero avuto un riflesso attorno ai bordi. Il bianco rimbalza, arrotonda un po’ gli oggetti. Il grigio no. E ho pensato che questa fosse una strategia.

È la prima volta che fotografa degli oggetti in quanto tali.
Sono nature morte molto semplici. Non c’è “arte” in queste immagini. C’è la ricca tonalità del grigio e le sottili caratteristiche di ciascun oggetto. Non sono oggetti d’arte: ceramiche rotte e polverose, una caffettiera di latta, un cappello, il teschio. Sono gli oggetti che Cézanne usava per le sue nature morte. Li ho fotografati nel suo studio, con la stessa luce con cui li vedeva lui. Erano cento anni che nessuno li toccava. Ho accostato le 25 immagini e ne ho fatto un’opera sola. Ora sono a questo punto. È molto diverso dal lavoro che ho fatto finora, è un rischio che mi sono preso. Non so se sia una buona opera d’arte.

Qual è la relazione con la sua opera passata?
Mentre ero a Ground Zero mi imbattevo tutti i giorni negli oggetti volati fuori dagli edifici. Oggetti privati appartenuti alla gente, cose che tenevano nella loro postazione di lavoro. Molti li ho conservati e li ho dati al museo. Ora hanno una collezione di artefatti un po’ come a Pompei. Un taccuino, un mazzo di chiavi, animali di peluche… Li ho fotografati tutti, per farne una copia, non ne volevo fare qualcosa in particolare.

C’è un oggetto che l’ha colpita di più?
Un giorno un vigile del fuoco mi ha portato una Bibbia. Era sepolta a sette piani sottoterra. Il calore l’aveva resa tutt’uno con un pezzo d’acciaio. Bruciata, imbevuta d’acqua… Era aperta su Esodo 21: «Ma se segue una disgrazia, allora pagherai vita per vita: occhio per occhio, dente per dente». Incredibile. Ho vissuto con quella Bibbia in casa diversi anni, poi l’ho regalata al museo. Tutte queste cose, Ground Zero, un libro sulla Toscana, il muro grigio, penso mi abbiano portato, passo passo, agli oggetti dell’atelier di Cézanne.

Wim Wenders racconta che una mattina venne con lei a fotografare a Ground Zero e riferisce di averla sentita dire che non aveva mai visto un mattino bello come quello. A Ground Zero?
Quello è il cimitero di tremila persone. Ci ho passato nove mesi. Ma spesso lì ho fatto l’esperienza dello stupore e della bellezza. Mi trovavo a dire: «È bellissimo». Poi il pensiero: «Ma sono pazzo?». Ground Zero era diventato bello, perché quel che c’era era diventato natura. Il sole che sorgeva al mattino, la nebbia che saliva, gli arcobaleni, la neve, i temporali, la luce dorata che entrava nel pomeriggio. Io guardavo e fotografavo tutto, perché era bello. Dopo il crollo delle torri ha preso piede la natura. Era il sublime.

In che senso?
Il sublime della cascata, degli abissi, della tempesta, della furia del mare. È il sublime che ci insegna lo stupore. A Ground Zero, quando la forza di gravità ha avuto la meglio sulle torri, è accaduto un nuovo tipo di sublime che nasce da una bellezza terribile. È ciò a cui io rispondevo e sono sicuro che è la stessa cosa che ha percepito Wenders quando è stato con me. La bellezza terribile, un sublime contemporaneo. È qualcosa su cui dovremmo riflettere.

Molti maestri della fotografia del XX secolo sono ebrei. È una coincidenza o è qualcosa di più? Cosa ha trovato delle sue radici ebraiche che l’hanno aiutata a sviluppare il suo modo di fotografare?
È una domanda delicata, ma contiene molta verità. Molti dei più grandi fotografi del Novecento sono di tradizione ebraica. È strano, perché gli ebrei non hanno una cultura visiva, in termini biblici. L’immagine scolpita non è ebraica. Non è neanche musulmana. Sono i cristiani a usare le immagini, i musulmani usano la calligrafia, gli ebrei… Per loro la parola è la parola. Ma per qualche ragione nel secolo scorso, soprattutto in America, tra gli ebrei si è creato un forte interesse per la fotografia. Secondo me perché gli ebrei sono gente con una forte coscienza sociale. Come popolo oppresso, cacciato dalla propria terra, gli ebrei sono diventati molto sensibili ai cambiamenti delle dinamiche sociali e sono watchful, hanno sviluppato uno sguardo vigile. Questo sguardo attento e l’interesse per i cambiamenti sociali hanno prodotto Freud, Stalin e Einstein. Oltre a moltissimi musicisti e artisti. Ma a portarli alla fotografia è una sorta di consapevolezza sociale, un tipo di rispetto, un senso emotivo di perdita. La fotografia è un’indagine sulla perdita. Sull’istante che se ne va. Gli ebrei percepiscono questa perdita e sono stati in grado di sintetizzarla. Penso a Diane Arbus, Garry Winogrand, Irvin Penn, Robert Capa, Robert Frank, Alfred Stieglitz…

Il pittore David Hockney dice che ha imparato a guardare la realtà disegnando. Che cosa ha imparato facendo fotografie?
A raffinare la mia intuizione rispetto a quello che mi accadrà. Non ho poteri extra sensoriali, ma ho sviluppato la capacità di predire in modo abbastanza preciso quando qualcosa sta per accadere. Io leggo la strada come se fosse un testo. Ti so dire che quella persona che sta camminando incontrerà quell’altra tra 20 secondi. Io sarò nel posto giusto esattamente in quel momento. E non sarà l’unica cosa che accadrà, perché altri due, tre, quattro arriveranno. Io so intuire quando in un posto le persone si incontreranno e renderanno visibile qualcosa che prima non lo era.

Dopo cinquant’anni a fare fotografie che cosa è rimasto come all’inizio?
Ho cominciato che non sapevo nulla di fotografia. Tutto ciò che avevo era il senso di meraviglia. Le cose mi sbalordivano, mi sembravano wonderful, full of wonder, piene di meraviglia. Quella persona, il gesto di qualcuno che si gratta i capelli… Potevano essere belli e poetici in quel momento e il momento successivo non esserci più. Io voglio essere pronto con la macchina fotografica per scattare. Ancora oggi faccio tesoro dei giorni. Mi capita quotidianamente di guardare e dire: «Ma che bello!». Le cose mi fanno fermare. Il mondo è pieno di momenti fantastici. Io vivo per farne esperienza ancora. Voglio tornare a dire “wow”. Perché è qualcosa che ti ferisce. Le cose che fotografo sono meravigliose. Sono piene di ruvidezza umana, energia umana. Ciò che davvero conta è avere un’altra esperienza che ti senti penetrare dentro. E rischiare ogni cosa tutti i santi giorni.

Luca Fiore

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