Questa intervista è stata pubblicata sul numero di settembre 2014 di Tracce
La fascetta gialla sulla copertina recita: «Il libro che ha scatenato il dibattito sull’arte contemporanea». Le fascette, si sa, sono specchietti per le allodole, ma L’inverno della cultura di Jean Clair, pubblicato in Italia nel 2011, è stato davvero un pamphlet che ha fatto scalpore. Storico dell’arte, a lungo curatore di importanti musei, accademico di Francia, Gerard Regnier (questo il suo vero nome) è amatissimo dalla stampa italiana per la sua verve polemica. La sua tesi di fondo è che l’Occidente è protagonista di una «discesa agli inferi», della quale il degrado delle arti figurative è l’esempio più eclatante. Nata in funzione del culto, separandosi dalla dimensione trascendente, l’arte si è prima ridotta a cultura, attività narcisistica, poi ad attività culturale, ostaggio delle logiche di mercato. Per Jean Clair è «il culto, non la cultura, ad aver originariamente reso abitabile il mondo». Nel suo discorso le star dell’arte contemporanea, Damien Hirst e Jeff Koons in particolare, vengono liquidate come figure mediocri, prive di talento e idee. Le loro opere accostate a subprime ed hedge funds. Bolle di sapone.
Alla fine dei suoi testi più famosi, Critica della modernità o L’inverno della cultura, si esce scoraggiati. Dipinge uno stato così desolante che sembra non ci sia più nulla da fare. Eppure lei continua a intervenire. Forse, in fondo, ha la speranza che qualcosa migliori?
È una domanda imbarazzante. Forse la mia posizione è solo estetica. Non è etica né religiosa. Non sono più un cattolico praticante, ad esempio. Vuol dire che, forse, mi avvicino alla presenza del Numen attraverso fenomeni estetici che nulla hanno a che fare con la religione. Se entro in una chiesa e vedo immagini stupende e ascolto Händel o Bach mi sento elevato. Quasi al punto di desiderare di tornare la settimana successiva. Ma se devo sorbirmi certe performance che si sentono oggi, preferisco starmene a casa. Forse sono un eretico, un uomo di estetica e non un uomo di fede. Eppure tutta la religione cattolica si è fondata su un tesoro di immagini e di suoni che sono la presentazione della bellezza. Lo diceva sant’Agostino: il bello è segno della divinità. Ma le chiese di oggi sono ancora la casa di Dio?
Perché questa difficoltà a rappresentare il sacro?
Le racconto questo aneddoto: il cardinale Jean-Marie Lustiger chiese al mio amico pittore Zoran Mu?sic? di dipingere una Maternità. Conosceva la sua opera, sapeva anche che era stato deportato a Dachau. Mu?sic? si sforzò di fare questo quadro che doveva raffigurare una madre col figlio. Non ci riuscì. Ai suoi occhi quel soggetto era diventato impossibile da rappresentare. Ma dopo la sua morte, nel suo studio, ho ritrovato schizzi, disegni, pastelli, di piccolo formato. Non erano Maternità: erano Deposizioni, Pietà…
Ma il soggetto sacro è stato affrontato da altri grandi artisti nel Novecento.
Picasso, ad esempio, lo ritengo un artista “cattolico”. Non solo per la famosa Crocifissione del 1930. Non solo per la ventina di disegni incredibili su questo tema sacro. Guernica è una specie di versione moderna del presepio. A sinistra c’è una madre col bambino e questo ha il braccio destro che cade nel vuoto, esattamente come in una Pietà. E Picasso era assolutamente cosciente di dipingere una Natività e una Pietà nello stesso istante.
Non c’è davvero niente che trova interessante nelle chiese contemporanee?
A un certo punto del Novecento la Chiesa cattolica è passata da un momento quasi protestante: nelle chiese non c’erano più immagini. Poi c’è stato un secondo periodo, che dura ancora oggi almeno in Francia, in cui hanno iniziato a usare icone bizantine. Ma non siamo protestanti né ortodossi. I cattolici non dovrebbero essere per le mura vuote né per le immagini “paralizzate”. Poi qualcuno ha usato opere di arte contemporanea orribili o mostruose, che sottendono un’interpretazione della fede che secondo me è un po’ al limite.
C’è una strada per uscire dall’empasse in cui ci troviamo?
I problemi che l’uomo sta affrontando sono più gravi di ieri. Il Papa parla di «cultura di morte». Penso all’aborto, alle leggi francesi sui matrimoni omosessuali, alla procreazione assistita, all’eutanasia. Se parlo da storico dell’arte, da esteta, dico che probabilmente questi sono dei nuovi temi che gli artisti dovrebbero provare a rappresentare. È molto difficile. Come fare? Nell’arte contemporanea non vedo nessun esempio della possibilità di rendere visibili questi problemi. Sono stato al Museo Lombroso di Torino, il museo di antropologia criminale. Lì, nella meravigliosa collezione di cere anatomiche dell’Ottocento, ho visto la serie dedicata ai vari stadi dell’embrione e l’ho trovata molto commovente. Ho pensato: se alle donne di allora fosse stato possibile vedere quelle opere, il rapporto che oggi abbiamo con l’aborto sarebbe stato diverso. Una volta viste quelle immagini tridimensionali non è più possibile scappare dalla realtà, pensando che l’aborto sia una cosa da nulla. Non è solo una questione linguistica, è un problema di forma, di rappresentazione.
Non si arrabbi, ma per la verità Damien Hirst, proprio l’anno scorso, ha fatto una serie monumentale sugli stadi dell’embrione che è stata esposta a Doha, in Qatar. E un’opera analoga l’ha fatta Marc Quinn qualche anno fa…
Sì? Non le ho viste, non le conosco. Sono un po’ scettico su questi artisti: il peso della derisione in loro è talmente forte che è difficile dire cosa intendano comunicare davvero.
La derisione è degli artisti o viene proiettata da critici e media?
Sì, forse mi sbaglio, potrebbe essere proiettata. Ma, in ogni caso, preferisco le opere scientifiche che ho visto al Museo Lombroso.
Benedetto XVI ha promosso la riconciliazione tra Chiesa e arte di oggi. Lei come imposterebbe una possibile soluzione? Inizierebbe dalle scuole d’arte? Dai seminari? Segnalerebbe alcuni artisti?
Non è una questione di strategia, ma inizierei col tornare all’insegnamento dell’iconografia cristiana. Sarebbe un buon inizio. Ma l’ignoranza del cristianesimo è tale che non so quanto si possa rimediare.
Se potesse regalare alla sua parrocchia di Parigi un’opera conservata in un museo occidentale, da mettere dietro all’altare, che opera sceglierebbe?
Come si fa in Russia, dove alcune icone sono state prese dai musei di epoca sovietica e rimesse nelle chiese?
Sì.
Forse una Pietà.
Quale?
(Ci pensa). La Pietà di Villeneuve-lès-Avignon, che è molto dura. In accordo con il nostro tempo… Senza speranza (sorride). Non, je joue. Scherzo. La Pietà è l’ultima e più bella invenzione iconografica frutto dello spirito cristiano. L’ultima ammirabile. È relativamente recente: gli artisti del Trecento la presero dalle sacre rappresentazioni.
Dopo tanti decenni di strapotere dell’avanguardia, di fatto, il mercato premia i pittori e gli scultori figurativi. Francis Bacon e Alberto Giacometti sono gli artisti per cui si è speso di più.
Sembra una rivincita. Ma era vero dieci anni fa, quindici anni fa. Ora sono le opere di Jeff Koons che sul mercato hanno dei prezzi folli. Milioni di euro per una scultura prodotta in cinque esemplari? Boh. Ma è vero che oggi è possibile parlare di Alberto Giacometti e Lucian Freud. Diciamo che c’è un bisogno di tornare all’immagine, di vedere di nuovo delle immagini e, se possibile, delle immagini senza cinismo e con una certa bellezza. Questo è nuovo di nuovo.
Non essere cinici è qualcosa che viene prima di mettersi a fare gli artisti. Come si fa a non essere cinici? Come si fa a insegnare a non essere cinico a chi potrà diventare un artista?
Tornando alle grandi questioni che riguardano la vita e la morte. Possono essere l’occasione per l’uomo occidentale di fare una riflessione fondamentale, radicale, e alla fine trascendentale. A partire da questi problemi penso ci saranno dei filosofi, degli scrittori, dei pittori che di nuovo ricominceranno a fare un’arte profondamente orientata sui problemi essenziali della vita e della morte. Come se fossimo nel Quattordicesimo secolo. Esagero?
Il cardinale Parolin ha concluso il suo intervento al Salone del libro di Torino girando al mondo della cultura la domanda di Gesù: «Dov’è il vostro tesoro? Perché è là il vostro cuore». Dov’è il tesoro di Jean Clair? Dov’è il suo cuore?
Nella mia infanzia.
Perché?
Sono nato in una famiglia di contadini. Mia madre era una donna molto credente. Mio padre era socialista. E oggi penso sempre di più a questa mia origine. Soprattutto quando, sessant’anni dopo, mi trovo sotto la grande cupola dell’Accademia di Francia.
Luca Fiore